Agosto.
Provincia agricola.
Si va per sagre.
In fondo, cosa c’è di meglio che passare una serata a guardare pensionati che ruzzolano come panda di gesso al suono di qualche improbabile orchestrina, mentre ci si strafoga di carne alla brace e farinata?
E poi, magari, si imbatte qualcosa di diverso.
Qualcosa di diverso si aspettavano certamente le svariate centinaia di partecipanti che nella notte del 6 agosto si sono ritrovati a Carpeneto – tra Acqui e Ovada – per la Notte Magica.
Un evento che prometteva qualcosa di più della solita abbuffata selvaggia.
E infatti…
Sorvoliamo sul fatto che per arrivare a Carpeneto è necessario battere strade uscite da un racconto lovecraftiano, con una segnaletica fra il surreale (Genova—>) e l’assente.
In fondo, è una delle caratteristiche del territorio, quella di alternare strade in cresta a strade a fondovalle, e trattarle spesso come sistemi separati ed indipendenti.
E la segnaletica, via, cosa volete che sia in quest’epoca di navigatori satellitari…
Molto più grave è la criminale disorganizzazione dell’intera faccenda.
I coraggiosi che raggiungono Carpeneto sono invitati a parcheggiare piuttosto fuori rispetto al centro storico, e poi sciropparsi una piacevole camminata di non più di cinque chilometri, su strade buie e non segnalate, nella totale assenza di rappresentanti delle forze dell’ordine o dell’organizzazione – che se ne stanno o a far capannello nell’area di parcheggio, o su alla rocca.
Ci sarebbe anche un servizio navetta, ma è gestito con un singolo pulmino da venti posti, ed uno dei volontari al parcheggio ci dice ridanciano che non vale la pena farci conto.
Si va a piedi, quindi.
Gli ultimi due chilometri aggiungono al buio ed al disorientamento il piacere di condividere da pedoni una carreggiata sulla quale sfrecciano automobili (anche della Protezione Civile) e scooter.
Una giovane donna trafelata chiede ad un uomo in giallo catarifrangente di guardia ad un piazzale vuoto, perché non si sia permesso al pubblico di parcheggiare più vicino.
Quello, stizzito, risponde “Ah, guardi io non so niente, non sono neanche del posto, sono solo un volontario della Protezione Civile”.
E ringraziate il vostro dio che questa sia una sagra paesana e non un terremoto.
L’ultimo chilometro accentua la salita, ed a bordo strada, di fronte alle case, gli indigeni guardano quella mandria di turisti e ridacchiano.
Poi, tutto si ferma, in una gran massa di persone che si accalcano contro delle transenne.
Tocca pagare il biglietto d’ingresso – un salatissimo imprevisto (non segnalato sulla peraltro esaustiva locandina) che lascia di sale una buona percentuale dei presenti.
Ma a questo punto cosa fai?
Ti rifai la scarpinata a scendere, nel buio, nell’assoluto deserto (non un bar, una fontanella, un rigagnolo), e te ne torni a casa?
Sono le undici passate.
Tempo di tornare alla civiltà… chessò, Acqui, e gran parte dei locali saranno chiusi.
C’è un forte sospetto di ricatto.
C’è un forte sospetto che la disorganizzazione sia in realtà un espediente per forzare la mano al pubblico riluttante a scucire il quattrino.
Io e mio fratello, stanchi, tirchi ed abbastanza scazzati, ci voltiamo e torniamo al parcheggio.
Quattro chilometri dopo, quando dalla strada buia già intravvediamo le luci del piazzale, per scansare una macchina della Protezioone Civile faccio il salto del salmone e ruzzolo nel fossato – un paio di pantaloni strappati, ginocchia doloranti, lividi sparsi.
L’auto naturalmente non si ferma.
Quando arriviamo al piazzale, il capannello di volontari non si vede da nessuna parte.
Fine della gita.
Carpeneto – mai più.
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